“SENNA – LE VERITÀ” ESCE IL LIBRO DI FRANCO NUGNES (MINERVA EDIZIONI)
Il direttore di motorsport.com ha raccolto in questa pubblicazione alcune testimonianze inedite dei protagonisti del 1 maggio ’94.
L’anteprima del libro (disponibile online, in edicola e libreria) a laltraimola.it, con l’emozionante racconto del PM del processo Senna, Maurizio Passarini, intervistato da Nugnes⤵️
«La coscienza è il miglior giudice che un uomo onesto possa avere.» argentino, definito libertador per il suo contributo all’indipendenza. Si può scomodare José de San Martín, generale, patriota e rivoluzionario di Argentina, Cile e Perù all’inizio dell’Ottocento. Maurizio Passerini, Pubblico Ministero del processo Senna, Giudice oggi in pensione, è interamente compreso in questa definizione. Non è un colosso, anzi è di taglia piuttosto minuta, ma lo si riconosce per due occhi che sprizzano curiosità, attenzione e intelligenza dietro alle lenti. È un anti-personaggio che, nella sua lunga carriera, non ha mai amato la ribalta della cronaca, preferendo far parlare le sentenze. Il lavoro. I fatti. È evidente che Adrian Newey, quando nel suo libro ha descritto Passerini come un inquirente in cerca di visibilità mediatica, non ha colto nel segno.
“In Italia non esistono morti accidentali. Se qualcuno muore e non è suicidio, allora qualcuno deve essere ritenuto responsabile. – ha scritto Newey nella sua biografia – Così, dopo la morte di Roland e Ayrton a Imola, fu assegnato un magistrato dall’ufficio del procuratore di Bologna. Due anni e mezzo dopo l’incidente, Maurizio Passerini decise che non c’era un caso contro la squadra della Simtek per la morte di Ratzenberger, ma stabilì che i dirigenti della Williams avrebbero dovuto affrontare accuse di omicidio colposo. Per quanto mi riguarda, è stata tutta una farsa. Sentirò sempre un certo livello di responsabilità per la morte di Ayrton, ma non colpevolezza. Il senso di colpa che sentivo dovevo affrontarlo da solo, non in un tribunale italiano presieduto da un Giudice che stava agendo contrariamente alla volontà della famiglia.
Il fatto che il caso Ratzenberger fosse stato così facilmente messo da parte mi fece sospettare che Passerini fosse in cerca di gloria personale e fama. Il processo era iniziato nell’estate del 1997. Avevo lasciato la Williams, ma avevo avuto la lungimiranza di far includere nel mio contratto alla McLaren la copertura delle spese legali per le accuse di omicidio colposo in corso. Patrick aveva messo subito in chiaro, anche quando ero ancora alla Williams, che, considerato che eravamo accusati individualmente, avremmo dovuto difenderci singolarmente. La ritenevo una presa di posizione abbastanza singolare. E la sera prima che iniziasse il processo, Patrick era venuto a dirmi: «Voglio che tu sappia che, per quanto mi riguarda, tu eri capo progettista e responsabile del progetto della macchina, e quindi credo che tu debba assumerti la responsabilità di questo». Ero esterrefatto! Non me lo aspettavo da Patrick. Per come la vedo, in qualità di ufficiale anziano della nave, se ne doveva prendere la responsabilità. Al di sotto di me, nell’organizzazione, c’era il capo dell’ufficio design, sotto di lui il disegnatore che aveva realizzato in prima persona il disegno. Inutile dire che non credo che sia così che ci si dovesse comportare. Tant’è che i loro nomi erano stati esclusi dal procedimento. Ad anni di distanza, penso che Patrick fosse sotto pressione e che non l’abbia gestita bene come avrebbe dovuto. Inoltre, per essere corretto nei suoi confronti, non ribadii mai questo suggerimento durante il processo. Fu una questione abbastanza diversa da un tipico processo inglese. Abbastanza simile a un matrimonio italiano, nel quale persone a caso si alzavano in piedi, urlavano per un po’ per poi rimettersi a sedere. Sarà un genio nel disegnare le F1, ma probabilmente Newey tratta meglio di macchine che di uomini. Ho conosciuto il Pm solo l’anno scorso, nell’occasione di questa lunga chiacchierata. Non ci eravamo mai incrociati con gli sguardi per trent’anni, ma ho sempre avuto stima per la persona.
Un grande lavoratore, un Pm che non ha mai guardato in faccia nessuno. Posso dirlo con cognizione di causa. Le anticipazioni di “Autosprint” sul caso Senna, in alcuni frangenti,
aprirono dei fronti investigativi: da fuori poteva sembrare che ci fosse una mutua collaborazione, ma non era così. Affatto. Tanto che Maurizio Passerini non si fece alcun problema nell’indagare il direttore del settimanale, Carlo Cavicchi, e me, con l’accusa di violazione del segreto istruttorio per le immagini pubblicate nel numero 47 (1994). Avevamo mostrato in anteprima mondiale le foto del casco di Ayrton insanguinato e lo spunzone
della sospensione che aveva trafitto il campione brasiliano come fosse una lama. Il sospetto era che avessimo “rubato” gli scatti dagli atti del procedimento e per questo rischiammo una condanna penale di due anni. Carlo e io, a un certo punto, abbiamo addirittura rischiato di essere gli unici condannati, visto che il processo Senna si chiuse con Patrick Head prescritto.
Non successe perché, giustamente, le rispettive indagini viaggiavano a volte in parallelo ma totalmente separate, e noi dimostrammo che le foto pubblicate non erano quelle presenti nei faldoni degli atti depositati.
Questo preambolo è necessario per inquadrare il personaggio Passerini che, a distanza di quasi trent’anni dai fatti, ha accettato di raccontarsi, rompendo la sua pudica riservatezza.
«Io ho lavorato soprattutto dal mio ufficio, meno immerso nella vicenda della F1. Fra l’altro non avrei dovuto nemmeno essere il magistrato di turno, perché vigevano dei criteri di rotazione, ma due o tre giorni prima del Gp di San Marino un collega mi chiese il favore di sostituirlo. Anche da quel punto di vista è stato piuttosto casuale che mi sia trovato a occuparmi di questa indagine.»
Che responsabilità si è sentito? All’inizio sembrava un caso come gli altri, l’approccio è stato simile a quello di un incidente stradale…
La differenza immediata è stata un’attenzione mediatica fortissima. I giornalisti venivano a chiedere e a informarsi: una situazione assolutamente non paragonabile a qualsiasi indagine avessi fatto in precedenza e,in generale, rispetto a qualsiasi indagine svolta a Bologna.
Qual è stato l’impatto sulla sua carriera?
È stata una delle esperienze più belle e più entusiasmanti per il piacere di svolgere certi accertamenti, ho conosciuto delle persone notevoli, l’ispettore Stefano Stefanini in primo luogo e Michele Alboreto, che ha dato un grande contributo. E poi ci fu un’altra peculiarità: le indagini in realtà furono due: si è lavorato sulla morte di Ratzenberger e sull’incidente di Senna in parallelo.
Ha subìto delle pressioni durante l’istruzione del processo?
Adesso ho il piacere di ammetterlo: certo, c’è stato chi mi ha avvicinato per dirmi se fosse davvero il caso di arrivare a un processo, perché che le corse fossero pericolose si sapeva e magari andando avanti si sarebbe messo a repentaglio il futuro dei Gp in Italia, non solo a Imola ma anche a Monza…
Ci sono state forti pressioni. Non voglio fare nomi, ma posso dire che varie organizzazioni che orbitavano intorno all’automobilismo si chiesero se fosse davvero indispensabile fare certe ricerche. Sapevo come rispondere e non c’è mai stato problema. Può darsi che, se le indagini fossero iniziate in Gran Bretagna, sarebbero finite escludendo al 90% la possibilità che sfociassero in un processo. In Italia la disciplina dei reati colposi è diversa rispetto all’Inghilterra e, quindi, si è dovuto rendere conto del fatto che qui fosse più che possibile che un’indagine proseguisse in un processo.
È stato giusto arrivare al processo?
Per me sì, perché si sono capite quali siano state le cause dell’incidente. Senza procedimento si sarebbe derubricato il crash a un errore del pilota che avrebbe perso la sua monoposto sui bump dell’asfalto? Sarebbe stato catalogato come un incidente che poteva avere molteplici cause, e si sarebbe detto che non era stato possibile capire quale fosse la principale che, poi, è apparsa invece evidente. Con il nostro ordinamento penale, una responsabilità per imprudenza o negligenza nella realizzazione del piantone c’era stata ed era stata elevata. Quindi era inevitabile istruire un processo. Ma aggiungo che, al di là dell’ordinamento italiano o anglosassone, io credo che sia stato un processo giusto, equo: con più attenzione nella modifica del piantone dello sterzo quell’incidente non si sarebbe verificato.
Lei è finito spesso dentro alle polemiche: cosa vorrebbe chiarire?
L’unica cosa che veramente mi ha dato molto fastidio è stato sentire dire:
«Avete fatto il processo per Senna e non l’avete istruito per Ratzenberger». Senna era il campione riconosciuto da tutti, mentre Roland era il pilota al primo anno in F1. Al di là degli addetti ai lavori, nessuno sapeva chi fosse e, quindi, la tragedia di Roland è passata in sordina, per cui il suo diventò un incidente di serie B. Io l’ho sempre detto: se fosse emerso dall’esito delle indagini che l’incidente dell’austriaco non fosse stato frutto di una casualità e fosse possibile, quindi, identificare delle responsabilità, così come si resero evidenti nel caso di Ayrton, avendo la possibilità di scegliere quale dibattimento seguire, io, senza la minima esitazione, avrei scelto quello di Ratzenberger. Perché, sono certo, non avrebbe creato quell’attenzione che rischia di trasformare un processo in uno spettacolo, scatenando spesso molte polemiche.
Nel caso di Roland era emersa da subito in modo chiaro qual è stata la causa dell’incidente…
Sì, un flap dell’ala anteriore in carbonio, quasi sicuramente danneggiato alle Acque Minerali nel giro precedente, si è rotto mentre l’austriaco stava provando il suo giro di qualifica: il cedimento è avvenuto nel punto più veloce della pista, dove il carico aerodinamico esercitava la spinta
massima. Fu evidente da subito. A questo punto aggiungo io una punta di polemica: lessi allora un’intervista ad Adrian Newey nella quale faceva capire di sapere che le indagini stavano cercando di accertare se il piantone avesse avuto qualche responsabilità nell’incidente di Senna. Per questo se la prese nei confronti del magistrato, cioè il sottoscritto, asserendo che io avrei giocato sulla notorietà del caso per farmi della pubblicità. Ripeto: se avessi potuto scegliere avrei seguito il processo di Roland.
All’epoca si è detto di peggio, cioè che per “spegnere” il processo l’avrebbero trasferita e promossa…
In realtà è successo che le indagini sui due incidenti sono iniziate in parallelo. Piuttosto in fretta, le cause dell’incidente di Ratzenberger si sono chiarite, per cui chiesi l’archiviazione al Gip perché non si poteva individuare alcuna responsabilità. Siccome però, alcuni atti erano comuni ai due eventi, il fascicolo passò per intero al Giudice delle indagini preliminari. Questi prese tempo per decidere se archiviare o meno, per cui i tempi si allungarono dando luogo a strane voci. Anch’io seppi che c’era chi andava dicendo che si voleva insabbiare il processo di Senna, ma erano panzane.
Più che insabbiare, sembrò che la volessero trasferire per lasciare a un altro magistrato il procedimento…
Questa è proprio una barzelletta, perché il processo ha i suoi tempi, come la stesura della perizia. In più si aggiunse la proroga delle indagini, una prassi abbastanza comune in tutti i casi un minimo complicati. Allora si sparse la voce dell’insabbiamento, così come quella del mio spostamento. In realtà ero già trasferito: nel senso che, quando iniziò il processo, stavo per passare dalla “Procurina”, che si occupa dei reati di competenza del Pretore, alla Procura del tribunale su mia domanda. L’accordo con Pintor, capo della “Procurina” e con Fortuna, capo della Procura, era che avrei portato a termine il processo Senna. Quindi l’abbandono non è mai stato in discussione: ho seguito le indagini e poi l’esito del processo in aula.
C’è stata una lunga polemica anche sul luogo dove celebrare il processo: se a Imola, dove era avvenuto l’incidente, o a Bologna, visto che Ayrton era deceduto all’Ospedale Maggiore…
La questione è stata dibattuta, però le regole della competenza imponevano Imola. Contava il luogo dove si erano determinate le cause dell’incidente e alla fine il processo si celebrò a Imola e, tutto sommato, la scelta è stata giusta: quella era la sede naturale.
Ci sono stati dei tentativi di condizionamento sul processo?
No, condizionamenti nessuno.
Nemmeno delle pressioni governative?
Be’, quelle sì. Il presidente del Brasile chiamò Oscar Luigi Scalfaro. Il nostro presidente sentì Francesco Pintor per conoscere i tempi della consegna della salma di Senna, in modo che si potessero organizzare i funerali a San Paolo. Non ricordo i termini, ma mi sembra che in due o tre giorni il corpo di Ayrton sia stato messo a disposizione dei familiari.
Dal mondo anglosassone nessuna reazione?
No assolutamente, e nemmeno dalla Fia. C’era solo lo stupore nel prendere atto che si potesse arrivare a un processo per un incidente nel Motorsport, dove il fattore di rischio è connaturato alla disciplina sportiva stessa. Per gli inglesi la soglia del grado di colpa che giustifica un processo penale è sicuramente più elevata della nostra. Non comprendevano come potesse esserci un procedimento penale, mentre ritenevano possibili le cause civili per i risarcimenti. Ho avuto a che fare con l’avvocato Goodman che seguiva la Williams e devo dire che è stata una persona correttissima.
L’avvocato Bendinelli, rappresentante legale della Sagis, la società di gestione dell’Enzo e Dino Ferrari, mi ha rivelato che la Williams ha avuto un atteggiamento accondiscendente da subito, mentre Patrick Head, direttore tecnico, e Adrian Newey, progettista della FW16, hanno avuto un approccio più duro nella loro difesa. Che sentissero la responsabilità dell’incidente?
Credo sia naturale: non piace a nessuno essere giudicato in un processo pubblico. Per la tesi dell’accusa, a causa di un loro errore era morta una persona e, in aggiunta, quella persona era Ayrton Senna, per cui il processo ebbe da subito un risalto mondiale. Mi metto nei loro panni e credo che per chiunque sarebbe stato difficile ammettere una propria colpevolezza nel corso del processo.
Gli ingegneri che hanno disegnato la modifica del piantone non sono mai stati indagati, ma solo i vertici tecnici della Williams: come mai?
Secondo la versione Williams, il disegno del piantone era stato affidato a Gavin Fisher e Alan Young, due ingegneri che non ho mai conosciuto. Nella valutazione che feci io, la modifica del piantone non fu una scelta di un tecnico di seconda fila, ma una decisione dei vertici tecnici della scuderia. E, quindi, la responsabilità di Patrick Head divenne evidente nel momento in cui autorizzò l’intervento sullo sterzo. E fu una modifica piuttosto estemporanea. L’unica vera grande curiosità che mi è rimasta sarebbe sapere quando e dove fu fatto quell’intervento.
Qual è stata la risposta a questa sacrosanta domanda?
Che la modifica era stata già realizzata dopo il Gp del Brasile, prima gara della stagione 1994.
Le successive immagini, invece, mostrano che il taglio della parte superiore della scocca fu eseguito successivamente…
Non c’è dubbio. Del resto il lavoro per alcuni aspetti fu eseguito con qualità artigianali, certo non degne del livello di grande professionalità della Williams. Faccio fatica a pensare che quell’intervento sia stato fatto nella tranquilla pace della campagna inglese, presso la sede di Didcot. È plausibile che sia stato fatto, invece, subito prima del Gp di San Marino. Emersero due o tre cose che portano a credere che quella sia stata una modifica fatta all’ultimo momento. Inizialmente ci consegnarono un disegno del piantone che altro non era se non uno schizzo che non riportava alcuna quota che indicasse diametri, spessori, lunghezze o qualità dei materiali.
Solo quando la Williams ebbe di nuovo il piantone in mano, perché nel frattempo la FW16 era stata messa sotto sequestro per la loro perizia di parte, ci fecero avere un disegno di quella parte degno della squadra campione del mondo. Mi chiedo perché quel progetto non ce lo abbiano fornito subito! La risposta è semplice: non avevano fatto in tempo a realizzare il disegno dopo la modifica fatta all’ultimo momento. L’altro elemento strano riguarda i metalli che erano diversi: la qualità dell’acciaio nel tratto utilizzato per collegare i due segmenti di piantone tagliati, era diversa e mediamente minore rispetto all’acciaio usato nel tubo originale, così come era minore il diametro. E anche questo mi diede da pensare: se il lavoro si fosse svolto normalmente, avrebbero usato un materiale identico.
Durante il processo, che sensazioni ha avuto riguardo certi personaggi della F1 che sembrava recitassero una parte in una commedia?
La cosa che mi colpì fu la profonda passione dei piloti. Alcuni di loro sarebbero stati disposti a pagare per correre e non correvano solo per essere pagati. In realtà non ho avuto modo di conoscerli bene: ricordo che sentimmo Gerhard Berger al Mugello, durante dei test. L’unico che ho avuto modo di scoprire di più è stato Michele Alboreto. Da giovane seguivo le corse di F1 e, quando Michele correva con la Ferrari nel 1985, rischiò di vincere il Mondiale. Il milanese ci diede un importante contributo nelle indagini per interpretare le immagini che avevamo, per capire certe reazioni che Senna ebbe e che s’intuivano dai dati della telemetria. Quando ho conosciuto la persona Alboreto, ho capito che non era solo un bravo pilota, ma anche un grande uomo, disponibile a dare il suo contributo. Una cosa che ci tengo a dire è che devo chiedere scusa a Emanuele Pirro. Non ce n’è mai stata l’occasione, e quindi è giusto farlo pubblicamente: all’epoca avevo nominato un collegio di consulenti. C’erano degli ingegneri (Mauro Forghieri e Tommaso Carletti), dei tecnici della facoltà dell’Università di Bologna e anche alcuni militari di Pratica di Mare, a cui c’eravamo rivolti perché tutti i particolari del piantone fossero analizzati con il microscopio a scansione elettronica; tra gli altri c’era anche l’ingegner Nosetto che aveva studiato la complanarità della pista. Nominai anche Pirro in qualità di pilota che aveva guidato anche in F1, perché potesse darci una sua valutazione sulla condotta di Senna. Emanuele firmò, insieme agli altri consulenti, le perizie che furono depositate. Al processo però, quando mi resi conto che il cuore del dibattimento sarebbe stato sull’aspetto tecnico della modifica del piantone, e nessuno metteva in discussioni aspetti riguardanti la guida del pilota brasiliano, non chiamai Pirro a testimoniare, pensando di fargli un piacere. Mi resi conto dopo che, forse, gli feci invece un torto, perché non riconobbi in questo modo il contributo validissimo che diede alle indagini e per questo gli chiedo scusa.
Veniamo alla sentenza di primo grado: sembrò uno “schiaffone” all’accusa l’assoluzione degli imputati?
Come tutte le sentenze si tende a leggere il dispositivo che è lungo solo una decina di righe, nelle quali si cerca di condensare la decisione: in questo caso era di assoluzione. Quello che s’intuì già in una prima lettura fu che agli imputati non veniva riconosciuto l’aver commesso il fatto, anche se la causa dell’incidente era da trovarsi nella rottura del piantone. Insomma il cedimento non era riconducibile a Patrick Head e ad Adrian Newey, perché erano emersi i nomi dei due ingegneri, Fisher e Young. La mia reazione fu di enorme delusione perché io, che di natura sono un pessimista, mi aspettavo per lo meno la condanna di Patrick Head. Ma la vera delusione ci sarebbe stata se non fossero state chiarite le cause dell’incidente. E invece, già nel primo grado emerse la rottura del piantone come causa del crash. In realtà la sentenza più deludente fu quella di Appello: si ipotizzarono dei dubbi anche sulle cause dell’incidente. Faccio il magistrato, per cui mi sento libero di criticare a volte i miei colleghi: quel primo Appello fu fatto in modo un po’ superficiale, leggendo molto sommariamente le carte e arrivando alla conclusione più semplice e meno impegnativa. In sostanza il senso era: chiudiamola lì, perché le cose non sono chiare. La Cassazione, poi, annullò la sentenza di Appello e rifece il giudizio lavorando solo sulle carte. Il secondo Appello arrivò alla conclusione che: di fronte alla sentenza d’assoluzione in primo grado e ribadita in primo Appello, se si fosse ritenuto che le cause dell’incidente erano chiare e la responsabilità non potesse essere attribuita a nessuno in particolare – quindi né a Head, né a Newey – la formula sarebbe stata quella di ricalcare la sentenza diprimo grado. Quindi, invece di dichiarare che il reato si era prescritto, chiarisce che l’incidente fu causato dalla rottura del piantone e che l’imputato non era stato condannato solo perché prescritto. Il reato di omicidio colposo cadeva in prescrizione dopo sette anni e mezzo: l’incidente era del 1 maggio 1994, e quindi l’1 dicembre 2001 era decaduto.
A distanza di anni, qual è il suo giudizio?
C’è stata delusione al primo grado, un momento di rabbia in Appello, capendo che la sentenza non avrebbe retto in Cassazione, ma sapevo che ci sarebbe stato il ricorso, che però non seguii personalmente. Non volevo che il caso Senna diventasse una cosa personale: “Passerini che ce l’ha con la Williams”. Collaborai con le persone che disposero l’appello, però in Cassazione ci andò un collega della Procura generale. Ora arrivo a dire che la cosa più importante non fu tanto arrivare a una condanna, ma capire come capitò l’incidente. Mi ricordo che andai a esaminare anche gli altri incidenti successi in Italia, e mi ricordo quello di Jochen Rindt alla Parabolica, durante le qualifiche del Gp d’Italia del 1970. C’erano immagini che mostravano la Lotus piegare a sinistra, prima del momento dell’impatto, per la rottura del semiasse anteriore sinistro, dato che i freni erano montati entrobordo. Sebbene le foto avessero indirizzato le indagini, non portarono a concludere nulla. Siamo tutti esseri umani, io e chi con me collaborò alle indagini, come Stefano Stefanini, quando vedemmo che, al dispetto dei fatti, si provava a negare quella che a mio avviso era l’evidenza, ci mettemmo anche un po’ di puntiglio in più nel lavoro. In cuor mio sono sicuro che in Williams sapessero esattamente cosa fosse successo, ma ci fu un gioco delle parti. Michele Alboreto, campione di F1, aveva preso a cuore il caso Senna e diede un grande la verità.
Si videro forme di “depistaggio” che, a un certo punto, sembrarono in grado di condizionare non tanto il processo, quanto l’orientamento mediatico?
Parlare di depistaggio mi sembra una parola grossa, perché in realtà la difesa cercava di portare prove a sostegno della propria tesi, più o meno fondata. La Williams sostenne che l’incidente si fosse verificato per una perdita di stabilità della macchina al Tamburello per effetto dei bump, che in effetti c’erano, ma non c’entravano niente. Si avvalsero di un programma americano Adams. Era uno dei primi sistemi di simulazione che avrebbe dovuto dimostrare che la colpa dell’uscita di strada di Senna non fosse la rottura del piantone, ma la perdita di aderenza. Il programma Adams nasceva per vedere come si sarebbe comportato un veicolo modificando una serie di parametri (il peso, piuttosto che l’incidenza degli alettoni o la pressione di gonfiaggio delle gomme). Già l’uso di questo programma per trovare la causa dell’incidente era improprio, anomalo. I consulenti Williams ci presentarono la simulazione Adams per dimostrare che stavamo facendo un errore colossale. L’ingegner Forghieri storse il naso non appena vide la simulazione e, allora, a processo in corso, ci rivolgemmo al professor Fanghella di Genova, che si occupava di programmi utili a scoprire le cause degli incidenti. Gli mandammo il materiale Williams e lui, in un paio di settimane, fu in grado di dimostrare in aula che l’uso del programma era stato molto forzato dalla squadra campione del mondo. Il professore fece girare il programma Adams seguendo i parametri della Williams ed emerse che solo al trentanovesimo tentativo, a forza di modificare i dati contro quella che era ogni evidenza, «… erano riusciti a far uscire Senna di strada». Ma questo non lo considerai un tentativo di depistaggio. Anzi fu un motivo di soddisfazione perché riuscimmo a smontare una costruzione difensiva che ci aveva lasciati perplessi sin dall’inizio.
L’indagine sul piantone quando si aprì?
Partimmo dalla fotografia di “Autosprint” e poi sentimmo i medici che soccorsero Senna per togliere il dubbio che qualcuno avesse tagliato il piantone per estrarre il pilota dall’abitacolo. Nel momento in cui capimmo che non c’era stato alcun intervento, cominciammo a farci delle domande. E le risposte sono arrivate quando abbiamo avuto a disposizione la telemetria. Non avevamo tutti i dati scaricati dalla vettura, ma riuscimmo a leggere i tracciati che ci rivelarono come Ayrton, a un certo punto, avesse agito solo sul freno: non c’era più nessuna accelerazione laterale, si sarebbe vista se il pilota avesse provato a sterzare. Se ipotizziamo, come sostenne la Williams, che Senna fosse uscito per una perdita di aderenza, perché il brasiliano non era riuscito a correggere la sua traiettoria con lo sterzo? Dal momento che non si registrò alcuna accelerazione laterale, diventò evidente che lo sterzo si fosse rotto.
Non da magistrato ma da uomo, che impressione ha fatto scoprire che era stata la punta dell’uniball a trafiggere il cranio di Senna?
Entra in ballo il gioco del destino, perché quel maledetto uniball bastava che passasse qualche centimetro più su, o magari sulla visiera senza trovare l’unico punto debole nella guarnizione, e Ayrton ne sarebbe uscito senza serie conseguenze. Lì si è giocata l’inimicizia degli dèi, perché se si ripetesse quell’incidente dieci volte, difficilmente il braccetto strappato dalla scocca seguirebbe lo stesso percorso per trasformarsi nella freccia d’acciaio che si è infilata nel casco di Senna. Ovviamente dal punto di vista giuridico tutto questo non cambia niente sulla causa dell’incidente e sulle eventuali responsabilità. Già dai referti dell’autopsia si capì che c’era stato uno sfondamento frontale dovuto a un corpo contundente che era arrivato alla base del cranio. Il destino ha avuto la sua parte.
Che effetto fa parlarne dopo trent’anni?
Molti tirocinanti quando vengono affidati a un magistrato per curiosità vanno a vedere qual è il suo curriculum per capire chi si troveranno di fronte, ed è capitato che mi chiedessero del caso Senna. A distanza di tempo ne parlo ancora con molta emozione perché è stata un’indagine nella quale ho messo passione ed entusiasmo. Dal punto di vista professionale rimane un bel ricordo e mi fa ancora piacere parlarne.
Ma come si arrivò, a suo modo di vedere, alla modifica del piantone?
Ho dato sempre per scontato che Senna avesse fatto delle fortissime pressioni sulla squadra per avere una macchina che potesse guidare come voleva lui. Da questo punto di vista Ayrton avrà fatto valere tutta la sua capacità persuasiva, cionondimeno chi fece quella modifica dello sterzo avrebbe dovuto realizzarla come Dio comandava. Non si sarebbe dovuto fare male il lavoro pur di accontentare il pilota.
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