Marcello Tarozzi (Imola, 1978) ex capogruppo del Partito Democratico a Imola, è oggi uno scrittore la cui produzione attraversa racconto filosofico, narrativa sperimentale e riflessione sul contemporaneo. La sua scrittura indaga le inquietudini dell’epoca moderna, alternando malinconia, ironia e sguardo critico sulla società. Tra i temi ricorrenti figurano il senso dell’identità, la memoria, il rapporto tra individuo e comunità, il declino culturale e la fragilità delle illusioni umane.

Ha pubblicato opere quali Le città dei sogni. Racconti del nostro tempo, Filosofia da bar, L’Italia vista dal barile, Il giardino invisibile, Cronache assurde dalla Galassia e I viaggi di Zor e Murk. I suoi testi mescolano stile evocativo e riflessione esistenziale, con atmosfere spesso surreali e dialoghi che richiamano le tradizioni filosofiche e letterarie europee. Tarozzi concentra l’attenzione sulle sfumature psicologiche e sociali, offrendo un ritratto disincantato e poetico del presente.

C’è chi vede nel caffè un’abitudine e chi, come Marcello Tarozzi, ci intravede un piccolo universo. Il suo libro L’infinito in una tazza (edizioni Scatole Parlanti) nasce proprio da lì: da quell’istante sospeso in cui il pensiero si posa e la realtà, per un attimo, smette di essere ovvia.
Una raccolta di racconti che mescola ironia, malinconia e un tocco surreale, dove la leggerezza diventa profondità e il quotidiano si fa specchio dell’anima.
Il libro è stato presentato sabato 25 ottobre alla Biblioteca comunale di Imola, in un incontro condotto dal professor Valter Galavotti, con il saluto dell’assessore alla Cultura Giacomo Gambi e sarà in vendita nelle librerie e disponibile sulle maggiori piattaforme online da novembre. Abbiamo incontrato l’autore per capire cosa si nasconde dentro questa tazza in apparenza così semplice — e perché, come scriveva Oscar Wilde, “solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”.

  1. Perché “L’infinito in una tazza”? Cosa rappresenta questo titolo?
    Perché la tazza è il nostro piccolo tempio quotidiano. È il luogo dove si posa la mano, ma anche il pensiero. Dentro quel gesto ripetuto — versare, mescolare, sorseggiare — si nasconde un infinito domestico, fragile, umano. Il caffè, per me, è una pausa che sa di ascolto, di attesa, di presenza. È l’istante in cui il mondo rallenta e possiamo guardarci dentro senza timore.
  2. Nei tuoi racconti si intrecciano paura, fragilità e contraddizione. È questo, secondo te, il volto autentico delle persone di oggi?
    Sì, e forse anche di ieri. Cambiano le forme, ma non le inquietudini. Gli esseri umani contemporanei sono fragili, ma la loro fragilità è una forma di resistenza: una fenditura da cui entra la luce, direbbe Leonard Cohen. Io non cerco eroi, cerco esseri umani: incoerenti, disorientati, ma ancora capaci di cercare un senso. La letteratura, dopotutto, serve a dare dignità alle nostre crepe.
  3. Ogni storia è autonoma ma sembra far parte di un unico discorso. C’è un filo che le lega tutte?
    Sì, ed è sottile come il vapore di una moka. Ogni racconto nasce da un dettaglio minimo — un gesto, una parola, un incontro — ma si apre su domande più grandi: sul tempo, sulla memoria, sul senso del vivere. Come scriveva Montaigne, “ognuno porta in sé la forma intera dell’umana condizione”. Ecco, forse ogni tazza del libro contiene proprio questo: un frammento di quella forma universale che è la vita.
  4. Il tuo stile alterna ironia e malinconia. È un modo per rendere più sopportabile la realtà?
    Forse sì. L’ironia è un modo di sopravvivere all’assurdo, ma anche di amarlo. È la carezza che si dà alla tragedia quando non la si può cambiare. La malinconia, invece, è il contrappeso che ci ancora alla profondità. Insieme tengono in equilibrio la leggerezza e la verità.
    Poi c’è il surreale, che per me è la lente più sincera con cui guardare il reale: serve a spostare di poco lo sguardo, a mostrare ciò che altrimenti resterebbe invisibile. Il surreale non è una fuga, ma un modo per dire la verità con più coraggio.
  5. In realtà, “L’infinito in una tazza” non è solo una raccolta di racconti: sembra un libro che contiene una riflessione filosofica — e, perché no, anche politica — sulla nostra società. È così?
    Sì, lo è. Anche se non lo dichiara apertamente, il libro osserva il nostro tempo con attenzione critica. Viviamo in una società che parla moltissimo ma ascolta poco, dove la libertà è spesso confusa con l’egoismo e la velocità con il progresso. Ogni storia prova a rallentare questo flusso, a restituire spessore all’umano.
    Non è un testo “politico” nel senso stretto, ma nel senso etico: credo che oggi raccontare la verità delle persone — la loro solitudine, i loro desideri, le loro paure — sia già un atto di resistenza civile.
  6. Cosa speri che resti al lettore dopo aver finito il libro?
    Spero resti una sensazione di intimità, di silenzio condiviso. Come dopo una conversazione sincera o una passeggiata in cui non servono troppe parole. Non cerco di offrire risposte, ma possibilità di sguardo. Se il lettore, anche solo per un momento, smette di correre e si concede il lusso di pensare, allora il libro ha fatto il suo lavoro.
  7. Hai già in programma altre presentazioni del libro?
    Sì, stiamo organizzando altre presentazioni a Imola e Bologna. Mi piace l’idea di portare il libro in luoghi diversi, perché ogni incontro è unico: cambia il pubblico, cambia l’atmosfera, ma resta sempre quel sottile desiderio di scambio, di umanità. In fondo, ogni presentazione è come un nuovo racconto: nasce dal dialogo e finisce solo quando qualcuno, alla fine, si ferma a riflettere.