Cà del Vento è stata l’ultima struttura dell’ambito psichiatrico rimasta all’interno del complesso dell’Osservanza. L’omonima realtà che gestisce la comunità è un associazione di volontariato e solidarietà, formata da cittadini imolesi e dagli ospiti stessi della struttura: una condizione impensabile fino a pochi anni fa: considerata all’epoca della sua apertura un vero e proprio esperimento: si rivelò essere un modello all’avanguardia. Era il 1988, l’Ausl di Imola unitamente al Comune diedero vita al “Progetto Valerio” – (qui il nostro documentario che spiega come nacque questo nome) coordinato dal Dottor Ernesto Venturini – il processo che portò alla chiusura dei manicomi in favore delle comunità – la cosiddetta deistituzionalizzazione .
Alcune persone ospiti del manicomio fin da prima della Legga Basaglia, hanno attraversato questa fase vivendo gli ultimi anni della loro vita in comunità alloggio, come appunto Cà del Vento e altre realtà del territorio. Un luogo che agiva per il rientro nella vita sociale e per il recupero dello status di cittadini di persone con disagio mentale. Una comunità che ha accolto, all’interno della sua residenza, volontari, a volte provenienti dall’estero, che volevano approfondire la conoscenza su questa esperienza.

I manicomi erano luoghi di segregazione dove le persone perdevano la propria personalità. Occorreva impegnarsi impedendo che rinascessero piccoli manicomi: nacque così Ca’ del vento, possiamo anche azzardare a dire, sulla falsa riga della pionieristico Autogestito Lolli di Giorgio Antonucci nato nel 1980 ma più indipendente dal punto di vista amministrativo (non è una costola dell’AUSL come l’Autogestito) Cà del Vento era ed è, diversa dagli appartamenti semi-protetti essendo una vera e propria famiglia, e sono i residenti che decidevano come gestire la casa, cosa mangiare, come gestire il tempo.

Il primo libro di Vanni

Da pochi mesi si è chiuso anche il capitolo imolese di questa realtà, ora trasferitasi in un nuovo alloggio a Borgo Tossignano, adatto alle esigenze dei suoi ospiti e del personale. Una storia lunga 31 anni. Un trasferimento resosi improcrastinabile benché la struttura dell’Osservanza, che li aveva ospitati fin dal 1990 quando nacque, necessitava di manutenzione. È dunque necessario fare un bilancio. Cosa rimane di Cà del Vento? Tanto. Rimangono i ricordi degli operatori (Nives Caroli, la coordinatrice, è andata in pensione, coincidenza, proprio negli stessi giorni del trasloco, dopo aver visto nascere la piccola comunità 31 anni prima) e quelli dei cittadini, di coloro che hanno assistito alle deistituzionalizzazione: gli psichiatri, i medici, gli infermieri, gli amministratori e i volontari. Ma soprattutto, le testimonianze di quegli ospiti le cui storie hanno fatto il giro d’Italia diventando esempio per l’opinione pubblica e per la psichiatria divisa. Molti di loro, da Imola, sono andati in televisione ad esportare il “MODELLO IMOLA”:

Uno di questi è Primo Vanni, il poeta di Casetta di Tiara che passò molti anni a Cà del Vento. Ritenuto dai suoi paesani firenzuolini l’erede di Dino Campana.

Restò sempre legato alla sua casa natale: “La Raccia”, oggi ormai diroccata, la quale rimase sempre nel suo cuore. Da lì se ne andò nel 1956 , dopo screzi e incomprensioni con il padre. Era andato a scuola a Frena per un anno poi il babbo lo aveva ritirato, assicurando al maestro che gli avrebbe insegnato lui a scrivere; dopo una vita passata modestamente, col ricovero in manicomio riscoprirà quest’arte, forse quasi dimenticata, e si getterà potentemente nella scrittura, sarà colto dall’ansia di fissare su un foglio i fatti della sua vita.

La scrittura rimase l’unico suo modo per presentarsi al mondo, per far sapere che anche lui esiste ed è parte di esso, che ha vissuto e che forse è stato anche felice. La sua era una vita fatta di piccole cose, di gesti e riti quotidiani, legata a tanti formalismi che l’avrebbero condizionata, ma non meno importante di quella di tanti sapienti. Col suo diario ci tramanda un mondo fatto di fatica, di sacrificio e di poca soddisfazione che lui affrontava quasi con distacco, anche negli eventi più tragici come la morte della madre. Ci narra in maniera cruda e scarna i fatti piccoli e grandi di tutti i giorni: i litigi con i familiari, la mucca che si gonfia perché mangia l’erba medica fresca o il passaggio del fronte, senza indugiare sui suoi pensieri o sui suoi stati d’animo.
La sua foto è stata per anni affissa davanti all’ingresso di Cà del Vento, a fianco della scritta forte e simbolica: “Mai più Manicomi”

Un altro esempio è Giuseppe Tradii, il “pittore dei manicomi”. Il suo talento venne individuato dall’attento Dott. Giorgio Antonucci che gli fornì colori e pennelli. Tradii, dopo la chiusura dell’Autogestito Lolli, venne ospitato nella vicina Cà del Vento. Ecco cosa scrisse di lui il Dottor Antonucci:

“Tradiì era un uomo che, per sua sfortuna e per una serie di circostanze negative, in una società come la nostra, doveva vivere fuori e invece è stato “incastrato” in manicomio. Ora, le persone possono avere o non avere il talento della pittura, indipendentemente dal fatto di essere fuori o dentro del manicomio; c’è chi ha talento per la pittura, chi per la musica; c’è chi ne ha molto ed è grande, chi ne ha poco ed è meno grande.”

Una delle pochissime fotografie disponibili di Giuseppe Tradii, qui assieme al Dottor Antonucci

“Però la pittura di Tradiì non c’entra nulla con il Reparto Autogestito dell’ospedale psichiatrico di Imola, dove visse tanti anni; c’entra soltanto per il fatto che da noi, all’autogestito, ogni persona, fintanto che restava lì perché non aveva sbocchi immediati (è difficile tornar fuori dal manicomio, come tutti sapete), però quelli che stava lì, anzitutto erano liberi. Per esempio, Tradiì la sera andava a Bologna, al night, quando voleva; oppure andava al mare, oppure al cinema, come gli altri; siamo stati all’estero, ecc.”

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