Il nostro Vicepresidente e capogruppo di FDI Nicolas Vacchi, prima di me, degnamente ricordato Norma Cossetto, la cui storia ci è nota nei dettagli grazie, in particolare, alla testimonianza della sorella minore Licia, defunta a 90 anni nel 2013, esattamente lo stesso giorno di Norma, il 5 ottobre, mentre si recava ad una celebrazione in ricordo della sorella. Altre uccisioni sono diventate tristemente note, ad esempio quella di Don Angelo Tarticchio, orribilmente seviziato e poi infoibato con 43 parrocchiani. In realtà gli storici fanno ascendere il numero degli assassinati ad almeno 15/20.000, ma non tutti furono infoibati: le foibe sono una caratteristica del suolo istriano; in Dalmazia i condannati venivano fatti affogare con una pietra al collo e molti furono i fucilati o i morti di fame e di stenti nei campi di concentramento sloveni e croati. Tra questi, uccisi per annegamento in mare, vi furono i fratelli Nicolò e Pietro Luxardo, industriali, produttori del celebre liquore maraschino. “Foibe” è quindi un termine usato spesso in senso generico, ad indicare l’olocausto istriano, ma i sistemi di soppressione non furono sempre gli stessi; così come le “camere a gas” in Germania, dove i prigionieri di guerra morirono per lo più a causa di epidemie, di stenti, di malnutrizione. Le foibe non rappresentarono poi solo un sistema di uccisione e di sparizione delle persone attuato solo dai titini. Anche nelle nostre zone montane, ad esempio il Cansiglio, tra Belluno e Treviso, sopra Vittorio Veneto, ospitò decine di “forre” “foibe” “bus”, ognuna rubricata con un nome specifico, all’interno delle quali furono ritrovati a fine guerra i corpi di militari fascisti e tedeschi, ma anche di molti civili, assassinati dai partigiani comunisti.

Lo scopo di questi stermini era la pulizia etnica: uccidere, ma anche infondere paura per far fuggire dall’Istria il maggior numero di italiani. Non solo foibe dunque, ma anche attentati e stragi, la più nota delle quali fu perpetrata a Vergarolla di Pola nell’estate del 1946, quando, profittando della presenza di molte famiglie radunatesi in spiaggia per assistere ad una gara di nuoto furono collocate un gran numero di mine fatte poi “inspiegabilmente” esplodere, che causarono la morte di più di cento persone. Questo tipo di terrorismo portò allo spopolamento di intere città ed il 90 per cento di giuliano-dalmati finirono per abbandonare le proprie case ed i loro beni: da Fiume se ne andarono 54mila su 60mila abitanti; da Rovigno 8mila su 10mila, a Dignano 6mila su 7mila. Si è detto, da parte di qualche storico, che l’Italia nel corso di vari decenni di impose in quelle terre una italianizzazione forzata, di assimilazione delle minoranze etniche e nazionali. In realtà spesso pare essersi operato perché l’Italia si riappropriasse di una sovranità usurpata in una terra dove, come si può notare ancor oggi dalle vestigia storiche, anche le pietre parlano italiano. E sottolineiamo, anche in riferimento ad interventi precedenti, l’italianità di queste terre. Proprio un anno fa, il 25 marzo 2021, sono stati festeggiati i 1600 anni di italianità adriatica nel nome di Venezia (…)Ebbe così inizio il grande “esodo”, il secondo termine (oltre “foibe”) rimasto sepolto per anni negli archivi della menzogna, che interessò secondo lo storico Indro Montanelli almeno 350mila persone. Arrivati in Italia vi trovarono una società ostile, ed un sospettoso Partito comunista italiano. Molti di loro venivano tacciati di essere “fascisti” e “repubblichini”, “carnefici che si atteggiano a vittime” e “indesiderabili” che scappano “per sfuggire al giusto castigo della polizia popolare jugoslava”.

Il prodotto di questa odiosa propaganda contro uomini, donne e bambini inermi privi di cibo e di vestiario, furono episodi di intolleranza spregevoli come quello che avvenne nel 1948, a Taranto: diversi militanti vicini all’ideologia comunista cercarono di assaltare l’edificio che ospitava gli esuli da Pola o alla stazione di Bologna, quando a un convoglio di profughi fu impedito di fermarsi per dissetare i bambini a bordo. Il treno, soprannominato poi “il treno della vergogna” venne preso a sassate da giovani che sventolavano la bandiera rossa con falce e martello, altri lanciarono pomodori e sputarono sui loro connazionali, mentre taluni buttarono addirittura il latte, destinato ai bambini in grave stato di disidratazione, sulle rotaie, dopo aver buttato le vettovaglie nella spazzatura. Voi saprete, perché ne è stato tratto nel 2018 anche un film-documentario intitolato RED LAND (Rosso Istria), che a Trieste sorge il noto “Magazzino 18” che ospita cimeli, strumenti di lavoro, pezzi di vita quotidiani abbandonati dai profughi impossibilitati a portare con loro quelle poche povere cose: un “Museo della Memoria” che, come Auschwitz, sarebbe interessante far visitare ai nostri giovani perché comincino a conoscere la storia negata.

Solo col crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda si iniziò a parlare, sottovoce, di queste cose, ma prima di ottenere cittadinanza nei libri di testo e nei consessi pubblici passeranno ancora anni. Solo nel 2004 il nostro legislatore ha voluto istituire la solennità del Giorno del Ricordo che noi oggi celebriamo. Per estirpare definitivamente la mala pianta del falso storico e del negazionismo, dobbiamo, noi per primi, a partire dal Consiglio Comunale della nostra città, riconoscere pari dignità al Giorno della Memoria e al Giorno del Ricordo, estinguendo i diversi pesi e le diverse misure (con Consiglio dedicato all’uno ma non all’altro) che la sinistra imolese pare adottare davanti ai fatti della storia e nella affermazione dei più basilari diritti dell’uomo e dell’umana società, dedicando spazi ridotti, quasi per convenzione, alla presente celebrazione. Impariamo, caro Presidente, ad abbandonare ogni tentazione di speculazione politica a favore di trasparenza e verità e diamo a quest’aula la dignità che le spetta, sempre.
(Maria Teresa Merli, Consigliera Comunale Fratelli d’Italia)