È il borgo dove si parla una lingua che in nessun altro posto si parla. Per raggiungerlo bisogna lasciare la via Montanara prima di Firenzuola, poi salire tra curve angustee castagneti secolari. Ogni tanto il soprassalto per un botto: pare d’ essere in guerra e invece sono i cavatori che strappano la pietra serena dai monti. Quando ci si imbatte in un paio di blocchi di case, nel bar-ristorante da Sonia e nella chiesa più volte distrutta – e altrettante ricostruita – si capisce che ci siamo. Il borgo è Casetta di Tiara, piccola frazione che fa parte del comune di Palazzuolo sul Senio, che si trova nell’altra valle. Come mai si chiami così, nessuno lo sa. E forse nessuno sa che qui si parla una lingua unica al mondo: il casettino, un idioma che deriva dal greco parlato nei territori italiani dell’ impero bizantino. Le origini di questa particolarità risalgono a quando i longobardi conquistarono Ravenna e in pochi riuscirono a scappare e nascondersi in questi boschi dell’ Appennino.
Ora nel paese sono rimasti soltanto in tredici, compresa una bambina, Gregoria: sono loro gli ultimi bizantini, gli ultimi custodi di questa lingua misteriosa. In paese quasi tutti portano i medesimi cognomi – Livi, Tagliaferri, Galeotti – sebbene loro affermino di non esser parenti, o al massimo di esserlo alla lontana. Ma Primo Livi, memoria storica di Casetta, racconta altro. E cioè che fino a sessant’ anni fa, quando a pranzo e a cena si mangiava sempre e solo polenta dolce, qui ci si sposava esclusivamente tra paesani, perfino fra cugini. Anche perché dove trovi una moglie o un marito quando intorno ci sono soltanto castagneti e montagne spanciate dai cavatori? Allora in paese non erano in tredici. Ma cinquecento, seicento, che vivevano grazie a castagni, frutteti, patate, legna, carbone. C’ era perfino il prete, che oggi invece arriva di tanto in tanto dalla vicina San Pellegrino. Parroco di Casetta avrebbe dovuto diventare, negli anni Cinquanta, don Milani: a lungo la Curia fiorentina fu incerta se spedirlo in punizione qui, dove decenni prima Dino Campana e Sibilla Aleramo avevano trascorso giorni di matta passione leggendo, parlando, raccogliendo funghi e facendo l’ amore dovunque capitasse. Fino alla seconda guerra mondiale Casetta è stata una comunità chiusa in se stessa, autosufficiente, mai lambita dalla grande storia se non al momento dell’ Unità – quando quassù arrivò la scuola con i maestri che parlavano l’ italiano – e della Grande guerra, che pretese dal borgo un incomprensibile sacrificio di uomini. Dei tredici casettini d’ oggi, dieci sono pensionati.
I tre restanti formano la famiglia Giorgi, agricoltori e ristoratori: papà Leonardo, mamma Sonia, più Gregoria, unica ragazzina nel raggio di chilometri (oggi Gregoria ha circa una ventina d’anni). Venuta al mondo un quarto di secolo dopo l’ ultima bimba nata in paese che, appena un po’ cresciuta, se n’ è scappata. Gregoria è anello estremo di una storia millenaria, avvincente e misteriosa, carica di tanti “forse”. Una storia che potrebbe spiegare l’ origine del casettino, il singolare dialetto del luogo: né legato al vicinissimo romagnolo, né tantomeno al fiorentino, e con alcune parole d’ etimologia greca, tipo “galaverna” e “galamosa” per indicare la neve, bianca, che diventa ghiaccio o si sta squagliando. Sentita così, questa lingua suona enigmatica, sincopata, rugosa, priva di morbidezze. Certo per valutarne il DNA andrebbe analizzato dagli studiosi fintanto che esiste. È infatti a rischio estinzione, visto che solo gli anziani la sanno usare. Secondo i casettini, il segreto di questo idioma misterioso risiederebbe nell’ origine stessa di Casetta. Che sarebbe stata fondata – documenti a suffragare l’ ipotesi mancano, giacché i più remoti non datano che al 1700 – da popolazioni in fuga dall’ Esarcato di Ravenna, dominio dell’ imperatore di Bisanzio, invaso nell’ VIII secolo dai longobardi conquistatori.
Esuli che cercavano riparo in luoghi remoti, su alture inaccessibili, e che con sé portavano la lingua ufficiale della loro patria, il greco. D’ altronde, sia vera o no la leggenda, significherà pure qualcosa che tra Firenzuola e Palazzuolo, in questa terra sempre stata di confine (oggi con l’ Emilia-Romagna, ieri tra granducato e Stato pontificio, ieri l’ altro con l’ Esarcato la cui frontiera correva a sei chilometri dal centro di Palazzuolo) si trovino chiese intitolate a Sant’ Apollinare, patrono di Ravenna, insieme ad altre dedicate a San Michele, onorato dai longobardi, e a San Giovanni Battista, protettore di quei fiorentini che nel Trecento assoggettarono qui tutto e tutti. Il mistero del casettino potrebbe celarsi anche in due lapidi murate alla base del campanile della chiesa. Vi sono incisi segni indecifrabili. C’ è chi pensa si tratti del primo e unico tentativo di fissare per iscritto questa lingua unica. E chi crede, piuttosto, che l’ epigrafe oscura si debba a uno scalpellino dislessico. Comunque sia, il casettino sta irreversibilmente svaporando. A meno che la piccola Gregoria non decida di farsene carico, prima o poi.
Casetta di Tiara,un luogo incantevole raggiungibile con diversi percorsi trekking del CAI Imola; il piu suggestivo e’ quello che da Badia di Moscheta percorre la Valle dell’Inferno lungo il Torrente Veccione e giunti al Mulinaccio attraversa il torrente Rovigo e giunge al borgo.
Dopo la visita al borgo ritorniamo sui nostri passi fino al torrente per risalirlo fino alle Cascate con un percorso quasi pianeggiante…
(da: Tante idee per camminare nel nostro Appennino)
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