Imola, 24 maggio 2000. La data che metterà in discussione la chiusura dei manicomi nella nostra città. Nel libro, dall’omonimo titolo, l’ex Direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl Imola, Ernesto Venturini, affronta questa delicata vicenda.
Siamo nel 2000, pochi anni dopo la chiusura definitiva dei manicomi nel nostro territorio. Un operatore di una comunità di Via Giovanni XXIII viene ucciso da un paziente. L’evento scuote moltissimo la comunità imolese. Per la prima volta nella nostra società viene emessa una sentenza che farà scuola (ma farà molto discutere): è lo psichiatria a pagare per i reati commessi dal paziente che aveva in cura. Si apre un lungo dibattito, che prosegue per tutti gli anni duemila, sulle responsabilità, gli errori, la mancanza di ascolto dei campanelli d’allarme che precedettero il tragico evento. Il medico che lo aveva in cura decise di dimezzare e poi di eliminare il Depot, una cura che abbassa fra le altre cose il livello di aggressività ma che è mal sopportata da molti malati. Si apre un largo dibattito in tutto il Paese: lo psichiatra può essere ritenuto responsabile dell’omicidio commesso da un suo paziente?
I FATTI
Alle 8.45 del mattino del 24 maggio 2000 la volante Pedagna della Polizia si precipita in una struttura protetta situata in Via Giovanni XXIII, quartiere Cappuccini. Una operatrice della comunità aveva chiamato il 113 per segnalare che un paziente, dopo aver ferito gravemente con un coltello un educatore, si era barricato all’interno della sua stanza posta al piano superiore, ancora armato. L’uomo poi veniva immediatamente bloccato una volta giunta la volante.
Nella struttura protetta di Via Giovanni XXIII, G.M. svolge diverse attività; apparecchia, butta la spazzatura, è autonomo nella sua vita all’esterno. Va alla bocciofila e al Parco delle Acque Minerali. E’ diffidente, sopratutto nei confronti della somministrazione del cibo.
“Nella comunità” – riassume il Corriere della Sera riferendosi al degente – “tutti dicevano che andava disposto il TSO“.
Il povero operatore che verrà poi ucciso, A.C, scrisse perfino a Mi Manda Raitre, “per denunciare i rischi che gli assistenti come lui correvano lì dentro”. Il paziente, G.M., riteneva A.C, operatore della struttura, come un “nemico”, pensava che lo volesse avvelenare. Il malato aveva già aggredito l’operatore in diverse occasioni e quel giorno era riuscito addirittura a rubare un coltellaccio. Si era nascosto dietro la porta della camera, attendendo che salisse le scale e gli portasse le medicine. E poi, in preda ai deliri della schizofrenia paranoide attiva di cui era affetto, lo aveva colpito a morte. G.M, era stato ritenuto dapprima non imputabile: sarebbe deceduto nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, senza mai entrare direttamente nel processo.
LA STORIA CLINICA DI G.M.
La storia clinica di G.M inizia all’età di 29 anni, viene incarcerato per resistenza a pubblico ufficiale. Il suo comportamento peggiora, da in escandescenze e in seguito a una perizia, che lo riterrà non imputabile per totale infermità di mente, viene inviato all’OPG di Reggio Emilia. Un ricovero – siamo nel 1970 – secondo il Dott. Ernesto Venturini, che ha ricostruito il fatto – “che forse appare troppo spropositato ed esagerato”. Tra l’altro, durante quel primo drammatico evento, G.M. venne costretto ad alimentarsi con la sonda. Sempre secondo Venturini – “un intervento medico territoriale tempestivo avrebbe fatto evolvere positivamente la situazione”.
Un modus operandi che negli anni ’70 non si riscontra ancora comunemente. Dopo 2 anni, G.M. venne trasferito addirittura ad Aversa dopo 2 anni di inutili cure. Scelta logisticamente incomprensibile, che risponde al fatto della miope logica politica interna alle due istituzioni. E qui, naturalmente, con la distanza si riducono i contatti con la terra di origine e la famiglia. L’uomo viene aggredito da un altro ricoverato poco dopo il suo arrivo nell’OPG campano. Intanto continua nel suo rifiuto al cibo. Viene contenuto, legato, secondo quelle che all’epoca erano le “normali” procedure di un manicomio. Poi, dopo due lunghi anni, viene trasferito all’Ospedale psichiatrico di Imola. Qui tenta la fuga, dopo che gli era stata promessa una dimissione poi non avvenuta. Verrà recuperato poco dopo alla stazione ferroviaria di Imola.
Il suo quadro psichico peggiora e proprio all’Osservanza, tenta di strangolare un medico di reparto. A questo segue un altro atto simile nei confronti di un altro ricoverato.


L’ARRIVO DI ANTONUCCI
Poi, dopo un po’ di tempo, Giovanni viene trasferito nel reparto aperto diretto dal Dott. Giorgio Antonucci, che già respingeva la violenza manicomiale. Rifiutando, in solitudine e già all’epoca, contenimento dei pazienti e ogni tipo di chiusura delle porte nel reparto. Il miglioramento del Musiani, in quel contesto, è rapido ed evidente. Inizia ad uscire dal reparto, nel parco. Addirittura dall’ospedale, prima furtivamente – ma con l’approvazione dei curanti – fino a quando ottiene l’autorizzazione a recarsi autonomamente in città a fare compere. Nel luglio 1978 viene dimesso. Ma le cose a casa vanno subito male. Nel frattempo il padre era morto ed era rimasta soltanto la madre. Nascondo conflitti coi vicini di casa e soprattutto con sua sorella. Si arriva al nuovo ricovero. Nel 1979 viene trasferito alla Villa dei Fiori, dove rimarrà fino al 1981.Anche qui assume un comportamento negativo. Rifiuta di andare in bagno e getta le feci dalla finestra. Ma quando viene messo in una camera con un bagno proprio questi “dispetti” finiscono.
1980, PROROGA DEI RICOVERI DOPO LA LEGGE 180
La transizione istituzionale fa sì che siano in scadenza le proroghe dei ricoveri consentiti dalla Legge 180: occorreva stabilire chi rientra ancora sotto il regime del vecchio manicomio o chi invece non potrà mai più tornarci. G.M. viene destinato a tornare nuovamente in manicomio. Il ritorno nel reparto 9 dell’Osservanza non è dei più semplici; viene rinchiuso diverse volte nel camerino di contenzione, specialmente in assenza di personale infermieristico sufficiente. Poi, nell’84, il trasferimento nel reparto 5 produce un miglioramento psichico del paziente. Inizia a dare una mano nel bar dell’ospedale, esce da solo nel parco, è tranquillo e disciplinato. Va in vacanza coi ricoverati e infermieri e, inizia a guadagnare qualche soldo per alcuni lavoretti commissionati da alcuni infermieri. Insomma, la situazione sembra davvero in miglioramento. Si inizia a parlare di dimissione. Nel 1995 G.M. viene dimesso definitivamente con diagnosi di “sindrome residuale in psicosi schizofrenica” e va a vivere nella residenza di Via Giovanni XXIII, poi teatro dei fatti eventi di cinque anni più tardi.
Le testimonianze, sono riassunte dal libro e dalle ricostruzioni del Dott. Ernesto Venturini nel suo libro dedicato ai tragici fatti di Imola e dalle testimonianze apparse sui giornali dell’epoca.
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